PIETRO APOLLONIO prigioniero dello Zar

di Marina Ghersinich

Non ho mai chiesto molto a mio nonno sui suoi anni durante la Grande Guerra. Sembrava qualcosa di molto lontano nel tempo e a scuola non ci era mai stato raccontato molto della storia di questa parte d'Italia. Entrando a far parte dell'Associazione Culturale F. Zenobi, ho riscoperto la ricchezza storica di questa zona e da allora è cominciato il rimpianto per non aver prestato più attenzione ai suoi racconti e per non aver chiesto di più quando lui c'era ancora. Mio zio conserva ancora alcuni ricordi dei suoi racconti, sebbene ogni volta che iniziava a raccontare qualcosa mia nonna sbuffava: “Eeeeh! Sempre con sta guera!!”, ed è da lui che ho raccolto queste testimonianze. Si chiamava Pietro Apollonio, era nato in uno dei paesetti vicino a Capodistria, purtroppo era analfabeta, sapeva a malapena scrivere il suo nome, e proveniva da una famiglia contadina, che lavorava a mezzadria per i proprietari terrieri della zona, spesso spostandosi da una proprietà all'altra, fino a stabilirsi a Crevatini, sui 'Monti di Muggia'.

Suonava la tromba nella banda del paese, e stava proprio suonando ad un ballo, a Muggia, in quel giorno di fine giugno 1914, quando i gendarmi vennero ad interrompere la festa: a Sarajevo era stato ucciso Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria e Ungheria.

Dopo pochi giorni a lui e agli altri giovani del paese giunse la cartolina con l’avviso di presentarsi insieme al fratello Giovanni detto Giovanin. Furono mandati a Lubiana per l'addestramento, che durò una quindicina di giorni, e poi ci fu subito la partenza per il fronte dei Carpazi, in Galizia. Nonno però non raccontò mai dei combattimenti, e non so se si trovò mai a prenderne parte o se fu catturato troppo presto. Raccontava però un episodio, di un Capitano ferito e caduto in un fosso, per recuperare il quale erano richiesti dei volontari, con la lusinga di un premio; nonno ed un suo compagno si offrirono per avere il premio promesso... una bottiglia di rum, con la quale poi si presero una ubriacatura solenne! Sembra che durante il percorso per recuperare il ferito, lui e il compagno meditassero di ferirsi (spararsi) l’un l’altro per avere la possibilità di tornare a casa. Raccontava che i russi avevano tre linee di trincee: nella prima avevano le armi, mano a mano che qualche soldato della prima linea moriva, da dietro arrivava un nuovo rimpiazzo. I caduti del suo battaglione furono quarantacinque, e suo papà lo prendeva in giro perché lui, all’epoca sua, aveva avuto solo sette perdite. Il riferimento all’epoca del padre è forse legato alla campagna per l’occupazione della Bosnia Erzegovina avvenuta nel 1878. All’epoca il reggimento 97 non esisteva ancora e purtroppo non ci sono tracce del servizio militare del padre di Pietro Apollonio.

Fu catturato dai russi senza violenza, insieme ad un commilitone mentre erano di pattuglia, sembra semplicemente intercettati, presi e poi mandati a Omsk per lo smistamento, e da qui in treno verso la Siberia. Lo smistamento avveniva in base alla nazionalità, dopo di che venivano separati. La destinazione finale fu il campo di Petropawlowsk, come riportato nella Verlustliste di cui ho trovato traccia negli archivi digitali di Vienna, e indicato anche nella fotografia datata 15 agosto 1915, dove appare con due compagni di guerra e prigionia, Giacomo Apostoli e Antonio Frausin, mentre il nome della località è però storpiato in Pietro Pavloschi.

Nel corso del lunghissimo viaggio, incrociarono vari treni russi che andavano verso il fronte portando nuove truppe e questi iniziarono a lanciare loro viveri, bottiglie, pane. Immagino che in quei momenti nessuno sapeva chi andasse a stare meglio... Nonno raccontava di come fosse riuscito a prendere una pagnotta bianca, poi, non si sa come, con la neve sciolta ed il pane fece un’abbuffata insieme a dei compagni di prigionia, forse una semplice zuppa di pane e acqua. In Siberia la temperatura era di – 40°, la barba ed i baffi si gelavano con il respiro. Si lavorava lungo la ferrovia per togliere il ghiaccio dai binari, mediante delle spranghe di ferro da impugnare con dei guanti di renna per non congelarsi le mani. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, nei campi di prigionia arrivarono degli ufficiali italiani, del Regio Esercito, per offrire ai cittadini austro-ungarici di lingua italiana di raggiungere l'Italia e unirsi a loro per combattere al loro fianco, ma nonno rifiutò: era un vero austriaco e preferì unirsi agli sloveni, imparandone così anche la lingua, cosa che molti anni dopo gli sarebbe tornata utile. Nel campo in Siberia la sorveglianza non era molto rigida, ed era anche possibile lavorare fuori dal recinto. Si mangiava poco e male, ma questo ormai valeva anche per tutta la popolazione russa che versava nelle stesse condizioni. Nei suoi ricordi i russi erano buoni con i prigionieri. Nonno lavorava per un possidente, al di fuori del campo. Non c’era tanta sorveglianza, erano lasciati abbastanza liberi; lui portava in giro il carretto distribuendo il latte e i prodotti del campo. Dopo la Rivoluzione, un giorno arrivarono i Bolscevichi, catturarono il possidente e lo buttarono giù dal campanile della chiesa ortodossa del paese. Nonno era presente e vide tutto: sentì il rumore del corpo che si schiantava sul selciato, un rumore che non avrebbe mai più dimenticato. In prigionia si ammalò di tifo, ma sembra sia guarito da solo, un giorno trovò il lenzuolo tutto bianco, come se avesse eliminato da solo le tossine dai pori, tanti pallini bianchi, forse uno sfogo della pelle, ma lui a mio zio Lucio parlò sempre di una sorta di ‘auto guarigione’.

Dopo la rivoluzione bisognava prendere una posizione, essere bolscevichi o zaristi, così nonno e altri due prigionieri, i suoi compagni nella foto, decisero di scappare approfittando della situazione confusa; riuscirono ad ottenere dei documenti falsi, spendendo i pochi soldi ricevuti lavorando. Un po’ a piedi un po’ col treno, iniziarono il lungo ritorno verso casa. Incontrarono sempre gente buona; anche quelli in divisa non li ostacolarono ma li lasciarono sempre proseguire finchè giunsero ad Odessa, sul Mar Nero. Lì si imbarcarono, e, attraversato il Dardanelli, continuarono fino a Taranto, dove dovettero trascorrere quaranta giorni in quarantena. E fu a Taranto che nonno apprese che Trieste ora era Italia e non più Austria. Questo per lui fu un colpo al cuore. Terminata la quarantena, sempre in nave raggiunse poi Trieste, per poi arrivare a Lazzaretto (Muggia), e poi a piedi fino a casa. Il fratello Giovanni era già arrivato, era stato ferito da una pallottola che gli era rimasta in corpo e che venne tolta solo dopo molti anni. Al fronte, mio nonno aveva un compagno di trincea, Giuseppe Crevatin, anche lui dello stesso paese, Crevatini. All'epoca era il fidanzato di mia nonna Domenica detta Meneghina, dalla quale aveva appena avuto un figlio, Giuliano, e attendeva il ritorno dal fronte per sposarsi. Al fronte, raccomandò a mio nonno, suo amico e compaesano, di sposare lui Domenica in caso non fosse tornato dalla guerra. Purtroppo Giuseppe non fece ritorno, sembra morì al fronte in conseguenza delle ferite, o forse morì di tifo, o forse finì disperso, nemmeno la famiglia seppe mai dove morì né dove fu sepolto.

Anche il piccolo Giuliano morì, nel 1918, di febbre spagnola. Un paio di anni dopo, mio nonno mantenne la promessa, sposò Domenica nel 1920, contro il parere della sua famiglia in quanto sposava una 'ragazza madre'. Nonno cambiò diverse nazionalità nel corso della sua vita. Nacque e visse fino ai venticinque anni come cittadino austriaco; nel 1918, al passaggio di Trieste all’Italia, divenne italiano. Nel 1954, dopo 9 anni sotto amministrazione alleata, durante i quali la casa di mio nonno si trovò sempre nella parte italiana, gli accordi del Memorandum di Londra modificarono il confine, cedendo altro territorio all'amministrazione jugoslava ed il confine si spostò così pochi chilometri oltre la sua casa, lasciandolo in territorio sotto amministrazione jugoslava e quindi cittadino jugoslavo. Dopo gli anni in Galizia e in Siberia, non volle più lasciare la sua terra e la sua casa, per questo, nel corso della sua vita, si ritrovò cittadino austriaco, italiano, TLT (Territorio Libero di Trieste), jugoslavo. Ma questo quasi scontato a quanti vissero il secolo scorso in questi territori, fu un vero e proprio dramma di identità di un popolo che ancora oggi ne porta le ferite.

Pietro Apollonio non è più un dimenticato della Grande Guerra

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